Arsenale alla Biennale di Venezia 2024: ecco un percorso da non perdere
Foreigners Everywhere, Stranieri Ovunque, si legge in una scrittura a neon che marca l’inizio della mostra alle Corderie dell’Arsenale, dedicata quest’anno agli “artisti stranieri, immigrati, espatriati, diasporici, esiliati o rifugiati in particolare a quelli che si muovono tra il Sud ed il Nord del Mondo”. Una mostra particolarmente gradevole da fruire grazie ad una predominanza di dipinti ed opere tessili rispetto ai video, il che consente al visitatore di muoversi agilmente tra le sale senza mai interrompere per troppo tempo il flow; e grazie anche alla scelta, azzeccata, di mostrare lungo la stessa parete più lavori dello stesso artista, il che consente di apprezzarne più facilmente stile e intenzioni. Ma soprattutto una Biennale ricca di intrigante bellezza, con un percorso espositivo di opere dal forte impatto estetico provenienti dalle più remote province dell'Impero, che ci svelano il talento di tanti “eroi dimenticati” del mondo dell’arte: artisti che operano ai margini, in gran parte sconosciuti persino agli addetti ai lavori e mai esposti in precedenza alla manifestazione.
Come Pacita Abad, artista-viaggiatrice nata nelle Filippine e successivamente vissuta in undici paesi e recatasi in viaggio in altri sessanta, di cui si possono ammirare opere tessili realizzate con la tecnica del trapunto, come At Guantanamo Bay (1994), nella quale ritrae l’attesa dei migranti dietro il filo spinato della frontiera. Oppure le pitture su corteccia dell’artista aborigena Naminapu Maymuru-White, nelle quali rappresenta sia il fiume che attaversa la terra dei Mangalili che la Via Lattea, ed intricate rappresentazioni di cieli notturni. Stupendi anche i dipinti oversize dell’artista indigena diné Emmi White Horse, nei quali ritrae poeticamente ed in maniera astratta i paesaggi degli Stati Uniti sud occidentali. Al centro della sua pratica vi è il concetto diné/Navajo di Hózhó, ovvero l’equilibrio con la Natura da cui scaturisce la vera bellezza, così come la rappresentazione delle ferite inferte alla Terra dai colonizzatori bianchi attraverso l’introduzione di elementi dissonanti.
Un afflato anti-coloniale e il desiderio di superare il privilegio bianco caratterizzano indubbiamente questa Biennale degli Stranieri in maniera trasversale, sia all'Arsenale della Biennale di Venezia che in numerosi Padiglioni Nazionali (ad esempio quelli dell’Olanda, Egitto e Serbia). Questo è particolarmente evidente nella stanza dedicata ad un progetto tra i più ambiziosi tra quelli presenti alla mostra: il Disobedience Archive di Marco Scotini, un archivio di opere fotografiche e video dedicato al legame tra pratica artistica, disobbedienza civile e azione politica. “Il progetto si propone come un atlante delle tattiche di resistenza contemporanea, dall’azione diretta alla controinformazione, dalle pratiche costituenti alle forme di bioresistenza”, spiega Carlos Alejandro Motta, artista presente nel progetto con due opere video, tra cui “Corpo Fechado”, nel quale fa raccontare allo schiavo José Francisco Pereira, un uomo del ‘700 rapito in Africa Occidentale e poi venduto come schiavo in Brasile, la storia di abuso di cui è stato vittima. Un progetto in fieri ed itinerante, mostrato a partire dal 2005 in numerosi paesi, il Disobedience Archive si arricchisce in questa sua ultima manifestazione di due nuove macrosezioni, per un totale di 40 nuovi film: Diaspora Activism, nella quale si affronta il tema della migrazione transnazionale sullo sfondo dell’egemonia del neoliberismo, proponendo un superamento del concetto stesso di cittadinanza. E poi Gender Disobedience, dedicata ai movimenti di resistenza LGBTQ+ un po’ ovunque nel mondo. Per chi è di fretta, consigliamo di vederne almeno quattro: oltre al già citato lavoro di Motta, molto belli anche Nunca seras un weye di Seba Calfuqueo, Desnudo bajando la escalera di Pedro Lemebel e Revolucion Puta di Maria Galindo.
Uno spirito di rivalsa anticoloniale segna anche l’imponente scultura in legno, vernice e polimeri sintetici dell’artista maori Brett Graham, che ritrae un enorme carriola o pātaka, simbolo di mobilità e distacco dalla patria, ricoperta di anguille, in segno di riverenza ad un’importante fonte di cibo tradizionale del suo popolo. “Nel 1858, come parte del progetto coloniale, il governo neozelandese aveva approvato il Waste Lands Act, che trasformava la definizione di grandi terre paludose – una ricca risorsa per i Maori – in ‘waste’, rifiuti”, si legge nel testo esplicativo che accompagna l’opera, che denuncia come “queste riserve di anguille per i Maori erano preziose quanto miniere d’oro”.
Un potente messaggio anticoloniale trasmette anche l’imponente opera di Frieda Toranzo Jaeger, Rage is a machine in times of senselessness, realizzata con una tecnica mista che unisce pittura a olio al ricamo. "Il progetto presentato alla Biennale Arte estende l'interesse dell'artista verso le automobili, le tradizioni del ricamo, la pittura murale e gli altari religiosi occidentali, conducendo il pubblico attraverso le esperienze di comunità emarginate che resistono alle eredità coloniali e alle discriminazioni di genere”, spiega la gallerista Francesca Bortolami, per poi aggiungere: “La fascinazione dell'artista per le macchine, in particolare le auto elettriche, deriva dal percepirle come intrinsecamente femminili, una visione da cui scaturiscono fantasie utopiche.”
Il tema della migrazione domina invece la sala interamente dedicata al suggestivo lavoro di Boukhra Khalili, artista franco-marocchina, intitolato "The Mapping Journey Project". All'interno, l'artista presenta su ampi schermi appesi al soffitto dei video nei quali vediamo in primo piano la mano di un migrante che, con un pennarello, traccia la traiettoria del proprio viaggio dal paese di origine su una mappa. Contemporaneamente, la sua voce narrante in sottofondo racconta le avventurose vicissitudini, spesso anche dolorose, legate al proprio viaggio della speranza. Lo stesso tema fa da trait d’union anche al Nucleo Storico Italiani Ovunque, una delle sezioni più interessanti della mostra, che riunisce le opere di artiste e artisti italiani che hanno viaggiato e vissuto all’estero, spesso contribuendo allo sviluppo di narrazioni moderniste locali, come Maria Polo, Maria Bonomi, Eliseu Visconti, Libero Badíi e Joseph Stella. Stupendo l’allestimento della sezione, con le opere esposte sui celebri cavaletes de vidro (cavalletti di vetro) di Lina Bo Bardi, la visionaria architetto e designer italiana trasferitasi in Brasile nel 1946.
Straniero è parola che condivide in molte lingue la sua radice con “strano”. Oltre agli artisti con la valigia, questa Biennale dedica ampio spazio anche al popolo queer, il popolo “degli strani”: gli artisti che si muovono con disinvoltura tra sessi e generi superando ogni rigida distinzione; ma anche gli strani nel senso di fuoriusciti, outsider, diversi. Come il cinese Xiyadie – contadino, lavoratore migrante, omosessuale e artista – che con la tecnica degli intagli su carta documenta l’evoluzione della vita queer in Cina a partire dagli anni ‘80, con una predilezione per opere a luci rosse nelle quali ritrae scene di cruising gay in luoghi pubblici, ed il proprio desiderio sessuale represso nella forma di un famelico serpente. O La Chola Poblete, artista sudamericana i cui acquerelli sono popolati da un vivace sottobosco di entità ibride, da vergini con le trecce, forme organiche ornate da falli, pesci, fiori, madonne e figure indigene transgender dall’identità sessuale fluida, armate d’arco e frecce e, ai piedi, di scarpe con i tacchi alti. Bellissimi, infine, i colorati murales in formato maxi dell’Aravani Art Project, un collettivo formato da donne cis e transgender la cui missione è diffondere positività e speranza nelle proprie comunità. Intitolato Diaspore, raffigura donne trans immerse nella Natura, circondate da fiori. Potente simbolo di emancipazione, una di loro tiene in mano una gabbia vuota con lo sportellino aperto, dalla quale un uccello ha appena riguadagnato la sua libertà.
Tra gli outsider celebrati in questa Biennale degli stranieri, vi sono infine anche alcuni artisti autodidatti, che creano ai margini del sistema arte seguendo la propria strada, incuranti di regole e convenzioni. Poco dopo l’inizio del percorso troviamo le tele ricamate delle Bordadoras de Isla Negra, un gruppo di donne cilene autodidatte che, tra il 1967 e il 1980, presero ad utilizzare la tecnica del ricamo per raccontare scene di vita quotidiana nel loro villaggio. Tra i tanti personaggi realmente esistiti raffigurati nell’imponente opera presentata alla Biennale, troviamo anche Pablo Neruda alla riceca di farfalle. Vi è poi Santiago Yahuarcani, pittore e scultore appartenente al clan dell’Airone Bianco della nazione Uitoto dell’Amazzonia settentrionale. I suoi dipinti raccolgono ricordi narrati dagli antenati, miti cosmogonici Uitoto e segreti di medicina tradizionale. Celebrando la forza degli spiriti guardiani degli animali e delle piante, ignorati dal pensiero occidentale, l’artista ci ricorda che l’attuale catastrofe ambientale ha radici antiche, almeno quanto lo sono le radici dello sfruttamento coloniale, responsabile di brutali espropri di risorse e della rottura dell’equilibrio con la Natura. Dalla stessa tribù proviene anche Rember Yahuarcani: i suoi dipinti – che per la presenza di animali nella foresta possono ricordare i quadri di Rousseau anche se realizzati in totale autonomia dall’arte occidentale – sono oniriche rappresentazioni della foresta, che ci catapultano in un mondo vegetale dove la magia esiste ancora, e nelle quali, dando voce al nomade e allo straniero che alberga in ognuno di noi, verrebbe voglia di perdersi per sempre.