Viaggo nelle capitali del mondo che non sono più solo i classici palcoscenici della moda come Milano e Parigi. Tra nuovi poli digitali, hub creativi e centri logistici, la mappa in trasformazione di un futuro che ci riguarda tutti.
Rihanna arrivò sul red carpet con un enorme mantello giallo ricamato e orlato di pelliccia e oscurò tutto il resto. L'occasione fu il Met Gala del 2015, che inaugurava la mostra del Costume Institute China: Through the Looking Glass, uno sguardo alla moda cinese e alle sue influenze sulla moda occidentale nel corso dei decenni. La risonanza di quelle immagini e di tutti i meme che ci scherzavano sopra oscurò momentaneamente un primato: la popstar era stata l'unica a indossare una creazione di una stilista cinese ancora residente in Cina, Guo Pei, fino ad allora sconosciuta ai più. Quella stessa risonanza indicò anche al grande pubblico una cosa: la Cina non era solo la fabbrica del mondo, il Paese in cui si producevano le creazioni pensate in patria dai brand europei o americani, ma un altro pensatoio della moda che ideava e produceva i suoi abiti allo stesso livello di qualità dei Paesi europei o americani, tanto da spingere Rihanna a indossarne uno. Improvvisamente "made in China" non significava solo "fatto con una manodopera meno costosa", ma assumeva la stessa aura d'eccellenza di "made in Italy". Com'è andata da allora? Oltre alle città della moda tradizionalmente intese, la Cina da sola ospita la China Fashion Week a Pechino - nella quale sfila esclusivamente anche Guo Pei dopo dieci anni nel calendario Couture di Parigi - e la Shanghai Fashion Week, che sembra avere la stessa vocazione di Londra, ovvero far emergere i nuovi talenti locali più inclini alla sperimentazione. La settimana della moda di Shanghai è modellata su quelle europee, per darsi uno standard e una legittimità riconosciuti a livello globale, ma ha le sue peculiarità: è più democratica - perché pensa e organizza degli eventi aperti al pubblico - e ha una vocazione persino più commerciale delle settimane di Parigi o Milano con i buyer in prima fila. Durante quella settimana, infatti, la città ospita anche Mode Shanghai, un trade show aperto al pubblico dove ai buyer che fanno shopping per boutique e rivenditori si mescolano i normali cittadini che comprano per loro stessi.
Una settimana aumentata che integra più di quelle occidentali creatività e mercato. Siamo comunque in un Paese ex socialista e ultra capitalista, che ha bisogno di educare ai consumi dei cittadini prima indotti a odiare i peccati borghesi. Come ha scritto Zhe Wang in una ricerca sulla Shanghai Fashion Week pubblicata nel 2020 su ZoneModa Journal: "La SHFW organizza numerosi eventi aperti al pubblico con lo scopo preciso di coltivare il gusto per la moda nel pubblico e facilitare le interazioni tra insider e outsider". Il progetto è chiaro: diventare il sesto centro della moda globale dopo Parigi, Londra, New York, Milano e Tokyo, un obiettivo non ancora raggiunto che si inserisce in un panorama difficile. Se pensiamo alle settimane della moda di oggi (i consumi sono un'altra cosa), New York e Londra sembrano un po' appannate, disertate a favore di Parigi che torna ad accentrare stilisti e sfilate - sia prêt-à-porter che Haute Couture - come ai vecchi tempi, quegli anni Cinquanta e Sessanta durante i quali l'Italia e gli Stati Uniti cercavano di diventare indipendenti creando una propria industria e un proprio stile.
La chiusura di AltaRoma per l'alta sartoria italiana, ma anche le settimane della moda di Milano che non sono mai intere settimane, confermano questa tendenza. Se l'Europa sembra ridursi progressivamente a una sola capitale, e al tempo stesso polverizzarsi in una geografia espansa con le presentazioni delle collezioni Cruise e Couture in giro per il mondo, da Seoul ad Alberobello, i Paesi nuovi che si affacciano sulla moda perché ne hanno scoperto l'opportunità economica, aumentano.
Lo aveva già notato David Gilbert nel 2006, quando in Fashion's World Cities scriveva: "L'idea della Città della Moda è ora una delle armi nelle mani dello Stato per provare la propria rilevanza a livello internazionale, la propria competitività globale, ed è diventata parte di una strategia di spinta metropolitana che punta anche sul valore della propria industria culturale". Ecco allora le settimane di Stoccolma, Copenaghen, Berlino, Madrid, Tbilisi, Los Angeles, São Paulo, Mumbai, Seoul, Lagos, Mexico City e molte altre, frutto di economie che scelgono questo settore come una volta si sceglievano l'arte, le bellezze naturali o le agevolazioni fiscali. Ma quanto durano i benefici per quelli che ci provano? "Le città si servono della moda e a sua volta la moda usa le città", scrive Simona Segre Reinach in La moda. Un'introduzione.
"Non solo fast fashion, ma anche fast cities. Come negozi pop up, città pop up salgono alla ribalta, per poi lasciare il posto o aggiungersi, più o meno temporaneamente, più o meno virtualmente, ad altre ancora".
È il caso della Tbilisi Fashion Week, per alcuni anni al centro di un'attenzione spasmodica oggi sfumata, dovuta forse allo stilista nativo della Georgia Demna, che era riuscito a imporre un'estetica post-sovietica da imitare ovunque e un culto di sé e delle sue scelte stilistiche. Ma ci saremmo mai interessati alla Tbilisi Fashion Week se l'enfant prodige locale non fosse andato a scompigliare le cose a Parigi con Vetements e Balenciaga?
Il caso Tbilisi ricorda un po' la "rivoluzione giapponese" degli anni Ottanta, quando scoprimmo la moda di Tokyo e i nuovi maestri Yohji Yamamoto, Issey Miyake e Rei Kawakubo solo perché avevano deciso di sfilare anche a Parigi. Quindi la bussola è eternamente puntata sulla Ville Lumière, nonostante le piccole escursioni? Il carattere nomadico della moda ha individuato altre città, che non servono alla moda-spettacolo delle sfilate, né alla moda-produzione delle industrie tessili, ma sono altrettanto cruciali per il funzionamento del sistema: sono le città della moda-logistica, quella branca fondamentale del mercato che ha scoperto un'altra grande vena da sfruttare, l'e-commerce. Il volume crescente delle vendite online, con conseguente nascita dei colossi del settore, ha reso necessaria l'individuazione di nuove città che facessero da centro di organizzazione e smistamento per un mercato parallelo a quello delle vendite in boutique. Come Bologna, primo centro nevralgico di Yoox, o Monaco di Baviera, in cui un negozio di lusso fondato nel 1987 è diventato uno degli e-shop oggi più visitati, Mytheresa. Nonostante il successo e la crescita negli acquisti online, Mytheresa ha mantenuto il quartier generale, e soprattutto il magazzino, nella città bavarese, perché il suo modello è diverso da quello dei super-venditori che hanno bisogno di aumentare il numero dei magazzini man mano che crescono.
L'approccio di Mytheresa allo shopping è curatoriale, opera delle scelte precise e non supera mai un certo numero di brand o di capi offerti, ha tradotto insomma in linguaggio digitale il suo dna di boutique, con una selezione fatta appositamente per il proprio cliente-tipo, che non doveva spostarsi più in là di Monaco per trovare il capo desiderato. Diverso è il caso di Farfetch, altro fenomeno dell'e-commerce di alta gamma, che ha un doppio quartier generale a Londra e a Porto, le due città del fondatore José Neves. Farfetch è un marketplace e a differenza di Mytheresa non ha bisogno di un magazzino perché offre semplicemente una piattaforma a brand e boutique di lusso per vendere il contenuto dei propri magazzini, alleggerendo così l'entità e il peso del mega-venditore. Il lavoro di Farfetch è leggero, quasi puramente immateriale, tanto che l'azienda passa più per una software company che per un e-shop.
Non è un caso che abbia scelto una nuova sede di rappresentanza a partire dal 2025, disegnata dall'archistar Bjarke Ingels e inserita in un villaggio, Fuse Valley, che già chiamano la Silicon Valley del Portogallo. Dal centro di Porto il quartier generale si sposterà nel sobborgo marino di Matosinhos, a pochi chilometri dagli interventi architettonici di Álvaro Siza sulla spiaggia, per insediarsi in un ambiente descritto come un villaggio in riva al fiume Leça, una comunità organizzata intorno a piazze, vie, negozi, parchi pubblici e sedi di imprese digitali. Un'Arcadia tech. Con questa scelta, è come se Farfetch volesse far coincidere la smaterializzazione del suo lavoro con quella del luogo in cui opera.
In effetti l'e-commerce ha liberato lo shopping dal vincolo fisico con il negozio, e insieme ai social ha individuato un nuovo posto in cui far esistere quella moda, una nuova città senza terreno e senza Stato in cui mettere in scena i rituali del settore: internet. Le sfilate nei live di Instagram, il see-now-buy-now possibile solo grazie alle performance in tempo reale della rete, e poi le esplorazioni dei brand in nuovi mondi come i videogame, gli Nft o l'intelligenza artificiale non fanno altro che togliere corpo alla moda che, nel suo proverbiale nomadismo, ha già cominciato a sperimentare anche con il Metaverso, che "mirerà a incorporare e integrare sempre più lo spazio fisico", come scrive Nello Barile in Dress coding. Moda e stili dalla strada al Metaverso (Meltemi editore).
L'ultima città della moda potrebbe essere una post-città globale presente soltanto in un ambiente digitale, nella quale assisteremo a sfilate di avatar e compreremo con un battito di ciglia.