Claire Fontaine è un collettivo artistico femminista concettuale fondato a Parigi nel 2004 da Fulvia Carnevale e James Thornhill. Claire Fontaine è immaginata come una persona reale e i suoi fondatori si sono dichiarati suoi assistenti. Avendo preso il nome da un noto marchio di cartoleria, Claire Fontaine si dichiara “artista readymade”. Le sue opere mettono in gioco una lettura dell'arte neo-concettuale, spaziando dalla scultura al video, passando per la pittura e la scrittura. Nel 2020, per la sua prima collaborazione con Maria Grazia Chiuri in occasione della sfilata di Dior AW20, Claire Fontaine ha presentato una serie di neon sospesi dal soffitto che riportavano frasi dal potente significato, come: “Women's Love is Unpaid Labour”, “Feminine Beauty is a Ready Made”, “Patriarchy = Climate Emergency” e “Consent”.
L'ho intervistata pensando che fosse l'artista adatta per parlare di femminismo in vista della Festa Internazionale della Donna.
Cosa significa la Festa della Donna per Claire Fontaine?
La Festa della Donna è un rito che rovescia per un giorno la rappresentazione dei rapporti di genere esistenti, proprio come si invertivano innocuamente le dinamiche di classe durante il carnevale barocco. Si onora per una giornata colei che si disonora, si svaluta e si sfrutta per il resto del tempo. Questa occasione è invariabilmente presa d’assalto dalle femministe di ogni bordo per attaccare la rappresentazione simbolica delle donne festeggiate: la stessa che implicitamente autorizza ogni abuso e discriminazione di cui sono vittime. La critica virulenta dell’8 marzo è ovviamente un’ottima cosa che trasforma una celebrazione insultante in un giorno di lotta, una lotta che è una festa perché, per quanto tristi siano le ragioni della sua esistenza, il suo manifestarsi è già sempre pratica di libertà condivisa, forza vitale. La lotta femminista, ci preme sottolinearlo, non è animata da un’idea di sterminio del “nemico” ma di conversione e di trasformazione dell’oppressore, perché chiunque opprima opprime sempre anche se stesso.
Cosa significa rivedere il tuo lavoro nella forma di un abito indossato da Chiara Ferragni sul palco di Sanremo?
Intanto era forse la prima volta che guardavamo Sanremo, e poi è stato esaltante. A settembre 2022, Maria Grazia Chiuri chiamò di punto in bianco e cominciò dicendo “Ovviamente mi puoi dire di no…”. Dischiuse poi con garbo e grande intelligenza il progetto dei quattro look di Chiara Ferragni da portare sullo schermo, tutti molto audaci e assolutamente legati alla storia dell’arte femminista contemporanea. Ci parve subito un progetto interessantissimo che collegava, per la prima volta, diversi piani: il piano televisivo e musicale di Sanremo, il potere di seduzione sui social di Chiara Ferragni, l’alta moda, l’arte concettuale e il femminismo.
Trovammo che l’esperimento fosse esplosivo e quando ci sedemmo attorno alla tavola (Chiara Ferragni, Maria Grazia Chiuri e Fulvia Carnevale) ci rendemmo conto che era la prima volta che delle donne di orizzonti così disparati discutevano insieme di come far passare un messaggio essenziale come quello contro la violenza fatta alle donne.
Il contributo di Claire Fontaine è stato richiesto per l’abito manifesto in apertura. Abbiamo scelto, come spesso facciamo, un’iscrizione murale: “pensati libera”. La libertà è la possibilità di amare senza timore, la certezza di poter essere accettate. Ci è parso terribile che l’uomo [street artist italiano dal nickname cicatrici.nere NdR] che aveva scritto questa bella frase, e che desidera restare anonimo, abbia sentito il bisogno di lanciare una campagna di calunnie contro di noi, basata sull’odio del disordine rivoluzionario che l’operazione ha creato.
Chiara Ferragni si è espressa su questioni politiche vitali, Maria Grazia Chiuri ha creato gli abiti che esibiscono tutti i contenuti con cui l’alta moda non vuole aver nulla a che fare, noi che siamo un’artista “radicale” ci siamo associati a loro sperando di toccare in quel contesto inabituale i cuori di quelle che sono meno raggiungibili e più bisognose di salvarsi dalla violenza patriarcale.
L’atto di reclamare un possesso autoriale per una citazione intenzionalmente anonima ci mostra quanto sia lunga la strada davanti a noi. Dire “Questo non lo potete usare: è mio, non importa chi sono ma non è per voi” è una minaccia patriarcale piuttosto comune. Perché la soggettività femminile che sorge e insorge non corrisponde mai agli stereotipi: di chi è ricca e bella, si dice che non ha il diritto di lamentarsi; di chi è brutta e povera, che le sue parole non hanno valore. Ci si deve vergognare di aver calpestato le convenzioni fatte per tenerci al nostro posto. È decisamente ora di vivere libere.
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Puoi raccontarci come sia nata e come si sia evoluta la tua collaborazione con Maria Grazia Chiuri in questi anni?
Maria Grazia Chiuri è una persona estremamente creativa e coraggiosa – le due cose dovrebbero sempre andare insieme, eppure lei è una vera eccezione. In quanto femminista, ama pensare al di fuori degli schemi e collegare situazioni e persone che a un approccio convenzionale sembrano senza rapporto. Già la sua idea di chiamare Claire Fontaine a creare una mostra all’interno della quale fare la sua sfilata è stata a dir poco incredibile. Abbiamo accettato la sua proposta nel 2020, perché abbiamo subito capito che eravamo sulla stessa linea d’onda; da allora è nata un’amicizia personale e creativa che non ha cessato di nutrire scambi, idee, discussioni appassionanti e incontri. Abbiamo tenuto insieme una conversazione all’INHA (Institut National d'Histoire de l'Art) nell’occasione del quarantennale nel 2022 a Parigi, e abbiamo collaborato quest’anno sulle strategie di sensibilizzazione verso la violenza contro le donne. È un’avventura formidabile.
Puoi condividere una tua definizione di Femminismo? Come si aggiorna e come si esprime progressivamente nel tuo lavoro?
Il femminismo è un metodo per smascherare i rapporti di forza che opprimono donne e altre categorie di persone presentandosi come situazioni naturali e talvolta desiderabili. Si può chiamare femminismo la posizione irriverente di fronte all’autorità ingiusta, che libera delle forze politiche e creative immense; perché il femminismo è sia una filosofia, sia una pratica che ci permette di trasformare noi stesse e gli altri in nome di un mondo in cui il dominio sul più debole è visto come un atto criminale e vigliacco e il lavoro è concepito come un’attività al servizio della vita (e non, come avviene nella nostra società, l’opposto). Ci permette di comprendere che le narrative ufficiali della storia sono semplificazioni propagandistiche e selettive composte per perpetuare la riproduzione dello status quo.
È quasi inimmaginabile portare avanti una pratica di arte contemporanea che non si nutra del femminismo e delle sue conquiste. Carla Lonzi [scrittrice e critica d'arte femminista italiana femminista, ndr] era giustamente scettica – e in parte anche apertamente ostile – al sistema dell’arte e alla psicologia eroica e sacrificale dell’artista. Ma questa ostilità va letta all’interno di un pensiero che vedeva il lavoro professionalmente riconosciuto (compreso quello artistico) come un campo in cui i rapporti di forza esistenti si sarebbero inevitabilmente riprodotti. E pur non potendo oggi restare su questa posizione, divenuta insostenibile a livello pratico, dobbiamo riconoscerle una parte di verità. Essere incluse in un mondo costruito dagli uomini e per gli uomini, senza che nient’altro in esso sia trasformato, a parte l’apertura di una porta che prima era chiusa, è ovviamente una situazione umiliante, un capolavoro di sfruttamento ai danni delle donne. Il problema è e rimane il patriarcato e il modo in cui esso informa la sfera personale e professionale di noi tutti. È questo che va compreso e destrutturato affinché le cose cambino veramente.
Molti dei tuoi lavori, appunto, fanno riferimento al pensiero della scrittrice e critica d'arte italiana Carla Lonzi, co-fondatrice – insieme all’artista Carla Accardi e alla giornalista Elvira Banotti – del gruppo femminista italiano Rivolta Femminile nel 1970. Che cosa diresti a un* giovane oggi che non conosce questi riferimenti, perché restano importanti, perché farli echeggiare nel presente?
La lotta femminista che iniziò in Italia tra glia anni ‘70 e ‘80, e di cui Rivolta Femminile è un’espressione incredibilmente importante, è profondamente contemporanea perché fornisce un modello di pensiero alternativo all’orizzonte apocalittico capitalista. I femminismi sono prima di tutto degli antidoti alle ideologie, in quanto propongono un rapporto tra teoria e pratica, tra il rimosso e la coscienza, che smaschera l’aspetto mortifero di qualunque prospettiva politica di matrice patriarcale, comprese quelle marxista e anarco-comunista.
Per esempio, parlare della donna clitoridea – definizione introdotta dalla Lonzi nel suo testo del 1971 “La donna clitoridea e la donna vaginale” – come “soggetto imprevisto” (e quindi rivoluzionario, trasformativo, illeggibile secondo le griglie politiche e di genere convenzionali) significa mettere in avanti non le circostanze miserabili dei bisogni materiali, ma quelle lussuose del piacere, del relazionale. Questo è un modello che può essere applicato anche alle dinamiche di razza e di classe. Il piacere non oblitera il bisogno, ma lo articola su un piano relazionale, in modo non moralista. Il terreno dei bisogni materiali – che per secoli è stato spacciato per qualcosa di intuitivamente ovvio – è in realtà il più sdrucciolevole di tutti perché il possesso, il benessere, i consumi necessari sono idee culturalmente acquisite e non sono esperienze che possano essere vissute al di fuori della loro rappresentazione ideologica.
Partire da sé, dal proprio piacere, è immediatamente rivoluzionario: questa posizione fa apparire la mancanza di diritti come mancanza di amore, in ultima analisi come risultato di dinamiche tribali che il patriarcato produce e il capitalismo amplifica.
Il femminismo ha mostrato l’importanza della costruzione del sé al di fuori o contro le categorie istituzionali e tradizionalmente politiche; ha permesso di comprendere che anche il concetto di lavoro, considerato come un pilastro del pensiero marxista, è una costruzione ideologica basata sull’ignoranza del fatto che il lavoro riproduttivo e non remunerato rende il lavoro produttivo possibile. Perché la contraddizione tra donne e non donne non è secondaria, è strutturante rispetto a tutte le altre.
Cos’ha motivato la tua scelta di trasferirti a Palermo negli ultimi anni? Quali sono i luoghi e gli aspetti per te più speciali di questo territorio?
Viviamo a Palermo da cinque anni e ne siamo molto contenti. La saturazione e la gentrificazione dello spazio a Parigi ci avevano portato a una situazione di pesantezza in cui passeggiare, guardarci intorno, osservare quel che succede in strada erano diventate esperienze traumatiche a causa dell’onnipresenza della violenza e della pubblicità. L’ospitalità dello spazio pubblico a Palermo è incredibile, la bellezza del tessuto urbano, delle tracce e anche della sofferenza, esibita e non nascosta ci hanno restituito l’entusiasmo nella vita quotidiana e nel lavoro. Il nostro posto preferito a Palermo è il nostro studio, nell’antico quartiere della Kalsa.